16 novembre 1926: la prima americana di Turandot al MET Opera di New York

L’abile ed autoritario Serafin per la prima di Turandot al Metropolitan Opera di New York, piccole memorie di un grande maestro.

Turandot Premiere Program on November 16, 1926 (The Metropolitan Opera Archives).

Dal teatro alla Scala di Milano al viaggio oltreoceano, dal 25 aprile 1926 al 16 novembre dello stesso anno presso il Metropolitan di New York, due prime per la Turandot di Puccini terminata da Franco Alfano. L’una diretta da Toscanini e l’altra da Tullio Serafin, sotto l’auspicio della Casa Ricordi.
Ed è per questo motivo che introduciamo subito il nostro breve inserto con una nota tratta dall’Archivio del Metropolitan Opera di New York: “in un contratto datato 14 gennaio 1926 la Ricordi concede al Metropolitan i diritti per la prima rappresentazione negli Stati Uniti d’America della versione italiana della grande opera intitolata TURANDOT di Giacomo Puccini. Una clausola inserita nel contratto recita: il Maestro Tullio Serafin deve dirigere.”
Sicuramente la clausola che la Ricordi aveva posto al Metropolitan non è di certo stata scritta a seguito della decisione di Toscanini che durante la recita scaligera interruppe l’opera proprio nel punto in cui Puccini smise di comporla, ovvero due battute dopo il verso “Dormi, oblia, Liu, Poesia!”, anche perché la prima era stata ad Aprile ma il contratto risaliva a gennaio.
Soffermandoci sulla parola “deve”: è facile a capirsi che Ricordi era pienamente consapevole delle capacità artistiche del maestro Serafin ed è quasi certo che volesse assicurarsi che fosse proprio lui a dirigere la prima americana dell’opera. Tutto questo infatti viene confermato da una recensione comparsa nel “Philadelphia Evening Bulletin” del 30 novembre 1926:

La prima di Turandot a Philadelphia con la compagnia del Metropolitan
“…per quanto riguarda la direzione del Maestro Tullio Serafin, che ha preparato ed arrangiato la musica, essa è stata caratterizzata dall’ormai celebre stile brillante di questo incomparabile musicista.”

Abito del secondo atto di Turandot, indossato da Maria Jeritza per la prima dell’Opera al Metropolitan Opera House il 16 novembre 1926 (Puccini Museum – Casa natale, Lucca).

La parola incomparabile definisce e caratterizza ancora una volta la carriera del grande Serafin che a partire dal 1926 ha diretto più di cinquanta volte Turandot, tra cui venti al Metropolitan opera di New York.
Per la produzione del 1926 il cast era composto da: Maria Jeritza, Max Altgass, Giacomo Lauri Volpi, Giuseppe De Luca, Pavel Ludikar, Martha Attwood, Angelo Bada, Alfio Tedesco, George Cehanovskij, Louise Lerch e Dorothea Flexer.
Un cast di alto livello che si ripropone il 30 novembre per una recita all’Academy of music di Philadelphia. I costumi sono disegnati da Gretel Urban (presente al Metropolitan fin dal 1920, prima opera al Met con Serafin: l’Africana di Meyerbeer 27 dicembre 1924) e di Umberto Brunelleschi.

Il costume di Turandot restaurato di Maria Jeritza conservato negli archivi del Met Opera di New York.

L’archivio storico Tullio Serafin custodisce due partiture di Turandot appartenute al maestro Serafin. Entrambe le partiture si riferiscono alla produzione del 1957 alla Scala di Milano con: Callas, Schwarzkopf e Zaccaria e registrata per Emi. Le partiture sono oggetto di studio per i tantissimi segni e commenti apposti dal maestro Serafin.
Ritornando alla Turandot di New York inseriamo anche una recensione di W. J. Henderson nel “the Sun”, dove possiamo trovare in una mezza riga la descrizione di come Serafin ha letto l’opera per la prima assoluta negli Stati Uniti: “Il signor Serafin ha preparato la musica con abilità e autorità”.

Foto di gruppo durante le prove di Turandot con Jeritza (Turandot), Lauri-Volpi (Calàf), Giulio Setti (maestro del coro), Wilhelm von Wymetal (regista), Giulio Gatti-Casazza (direttore generale) e Tullio Serafin (direttore d’orchestra). Foto di H. Mishkin, 1926. The Metropolitan Opera Archives.

Dal MET Opera Archives

Metropolitan Opera House
November 16, 1926

United States Premiere

TURANDOT
Puccini/Alfano-Adami/Simoni

Turandot…………….Maria Jeritza
Calāf……………….Giacomo Lauri-Volpi
Lių…………………Martha Attwood [Debut]
Timur……………….Pavel Ludikar [Debut]
Ping………………..Giuseppe De Luca
Pang………………..Angelo Badā
Pong………………..Alfio Tedesco
Emperor Altoum……….Max Altglass
Mandarin…………….George Cehanovsky
Maid………………..Louise Lerch
Maid………………..Dorothea Flexer

Conductor……………Tullio Serafin

Director…………….Wilhelm von Wymetal
Set designer…………Joseph Urban
Costume designer……..Gretel Urban
Costume designer……..Umberto Brunelleschi

Turandot received twelve performances this season.

 

 

di Andrea Castello

Allegato: traduzione recensione di W. J. Henderson in the Sun: Fonte: The Metropolitan Opera Archives.

“Turandot”, un dramma lirico in tre atti e cinque scene, libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, musica di Giacomo Puccini, è stato presentato alla Metropolitan Opera House la scorsa sera per la prima volta in questo paese. La serata è stata ricca di splendore, perché questa è un’opera che assorbe l’occhio e l’orecchio in egual misura. La rivelazione di questa unione delle arti tributarie al dramma si è realizzata senza l’aiuto degli abbonati, ma con grande affluenza di pubblico e generali manifestazioni d’interesse

L’opera rimase incompiuta quando la morte colse il compositore e Franco Alfano fu chiamato a scrivere le ultime pagine della partitura. Del risultato si è già dibattuto in questo giornale. Le prime rappresentazioni
di “Turandot” sono state eseguite al Teatro alla Scala di Milano lo scorso aprile. Il cast originale comprendeva alcuni cantanti ben noti qui, vale a dire, Rosa Raisa come l’eroina, Michele Fleta nel ruolo del Principe e Giacomo Rimini come Ping, il gran cancelliere. Arturo Toscanini ha diretto le performance. La versione pianistica dell’opera contiene i nomi di tutti i protagonisti impegnati nella produzione, compresi i primi maestri dell’orchestra.

La storia è tratta da uno dei racconti del conte Carlo Gozzi, che visse dal 1722 al 1806 e guadagnò molta fama dalla creazione di pezzi drammatici basati su fiabe. Il più famoso di questi fu “Turandot, la principessa della Cina”, che ebbe l’onore di essere tradotta in tedesco da Schiller. La sua versione fu quella utilizzata dai librettisti di Puccini. La base di questa deliziosa favola è l’avversione della Principessa Turandot all’onorevole istituzione del santo matrimonio, avversione basata sul ricordo del violento matrimonio imposto alla sua bisnonna. Poiché ci si aspetta che le principesse si sposino, Turadot escogita una scappatoia sotto forma di enigmi. Abitualmente le donne fanno molte domande che inquietano ai gentiluomini che desiderano sposarle, ma ad ognuno di essi questa signora ne chiede solo tre. Se il candidato non sa rispondere, perde non solo la principessa, ma anche la sua testa.

Il principe di Persia ha appena perso la sua, quando un principe sconosciuto che passa di li vede la principessa, s’innamora e annuncia la sua intenzione di affrontare l’esame solitamente fatale, risolve trionfalmente i tre enigmi. A questo punto la principessa chiama suo padre l’imperatore per salvarla. Lui le ricorda che un giuramento è sacro, ma questo non la turba affatto, anzi, chiede al Principe se desidera conquistarla pur sapendo che il suo cuore sarà pieno d’odio. No, lui afferma, la prenderà con amore.

A questo punto è il Principe ad offrirle una via di fuga. Lei non conosce il suo nome. Se saprà dirlo la mattina successiva, rinuncerà al suo diritto di averla in moglie e le concederà la sua vita. La principessa viene a sapere che la di lui schiava Liu, che lo ha seguito, può darle le informazioni desiderate, ma Liu ama il principe e non lo tradirà. Messa sotto tortura e temendo di essere sconfitta, si uccide. Dopo che il suo corpo è stato portato via, il principe ordina a Turandot di togliersi il velo per vedere il sangue innocente che a causa sua è stato versato. Strappa il velo. Un attimo dopo doma le sua proteste afferrandola tra le sue braccia e baciandola appassionatamente.

Questa signora che mai era stata baciata si scioglie ed il principe sconosciuto le rivela il proprio nome. Nell’istante in cui lo sa, la principessa riprende il suo precedente contegno e si affretta verso la grande piazza davanti al palazzo per reclamare il premio. Ma lei si scioglie di nuovo all’ultimo secondo e proclama il nome del Principe come “Amore”. Alche l’impero cinese rappresentato dall’operoso coro di Giulio Setti canta un peana di ringraziamenti.

Questo ultimo lavoro di Puccini potrebbe essere oggetto di un’analisi lunga e critica solo perché scritto da Puccini, ma ciò deve essere rimandato. Le prime impressioni sono tutto ciò che deve essere registrato ora. E la prima di tutte è che l’argomento del libretto è un buon materiale drammatico, ma potrebbe essere stato gestito meglio. Al di sopra di tutti gli altri elementi negativi si profilano le figure dei tre consiglieri chiamati Ping, Pang e Pong. Sono continuamente ostacolati nel percorso di sviluppo come personaggi e nella prima scena del secondo atto diventano veri e propri fastidi con i loro lunghi discorsi, che non hanno nulla a che fare con il progresso del dramma. Se questi personaggi erano stati intesi come sollievo comico, sono un fallimento. Non sono né comici né sollievo, tranne quando escono dal palco.

Musicalmente, l’opera è progettata su una scala grandiosa, c’è molta più scrittura per coro e orchestra che in qualsiasi altra creazione del compositore. Anche la musica è generalmente concepita in forme massicce. Fa molto clangore e cerca di essere imponente. C’è una declamazione molto faticosa e un gioco relativamente piccolo degli accenti più dolci dell’arte vocale. Le espressioni della Principessa sono principalmente rumorose e furiose e non hanno perso nulla grazie alla straordinaria prodigalità di Madame Jeritza.

C’è solo un’eco del vecchio tipo di melodia Pucciniana. Ma la [prima] scena ci promette qualcosa di nuovo nella sua scrittura corale. C’è una tremenda energia nel primo coro e una bellezza soave nel secondo ed entrambi sono buoni esempi di scrittura operistica. Ma nelle scene successive i fuochi corali si spengono e alla fine rimangono solo le ceneri fumanti dell’ispirazione. L’ultimo atto contiene un’aria vigorosa per il principe e un duetto che potremmo definire sano e consueto; ci si aspetterebbe che l’immaginazione del compositore ardesse di fiamme più brillanti sull’altare di Venus Vietrix.
Per quanto concerne la costruzione tecnica della partitura solo due o tre appunti devono essere fatti. Naturalmente c’è il colore locale nell’uso frequente dei temi cinesi e nelle suggestive sfumature dell’orchestrazione. Anche Weber ha scritto musica per “Turandot” di Schiller e anche lui ha usato melodie cinesi. Abbastanza logicamente e con l’infallibile istinto teatrale che non ha mai abbandonato Puccini, le emozioni fondamentali del dramma sono espresse in una musica operistica non adulterata, ma le melodie cinesi hanno una posizione di primo piano nella composizione strumentale e in gran parte dell’ensemble vocale. L’orchestrazione è opulenta e rivela la capacità del compositore di tessere l’incantesimo della strumentazione.
Temi rappresentativi compaiono in questo lavoro, ma Puccini evita la trappola di una loro aderenza servile. Sono pochi e diretti. Il motivo della Principessa (o il suo potere malvagio) viene ascoltato per la prima volta quando i ragazzi cantano fuori prima che il Principe di Persia appaia e in piena forza di nuovo quando entra la Principessa. Il tema dell’enigma, che consiste in una fanfara di ottoni, accompagna l’avvertimento della Principessa che gli enigmi sono tre e la morte una, e si sente quando il Principe propone il suo enigma. Ma la ricerca del leit motif che Wagner ha scaricato sulle spalle già appesantite della musica, è generalmente non redditizia, perché se i motivi non si intrecciano in un’espressione unica sulla scena non assumono alcuna importanza. Ci saranno forse alcune differenze di opinione se in quest’ultima partitura Puccini abbia raggiunto l’unità di stile, ma questo argomento potrebbe essere lasciato per una discussione futura. La produzione dell’opera al Metropolitan è davvero splendida. Lo scenario di Josef Urban è stupendo nel colore, appropriato nell’umore e tratteggiato con la fantasia della storia. Il signor Serafin ha preparato la musica con abilità e autorità. I costumi di Madame Jeritza sono magnifici, e gli indumenti degli altri protagonisti e il coro suggeriscono la Cina della lampada di Aladino. L’esecuzione musicale è stata in generale molto vigorosa. È un’opera davvero molto rumorosa, ma potrebbe essere attenuata. A proposito dei singoli protagonisti, il commento potrà essere fatto dopo la seconda rappresentazione. Alla fine dell’esibizione ci sono state circa quindici chiamate alla ribalta per gli interpreti.

 

Review of W. J. Henderson in the Sun: Puccini’s Last Opera Presented. Mme. Jeritza Sings Role of the Princess in ‘Turandot’ at the Metropolitan (The Metropolitan Opera Archives).

“Turandot,” a lyric drama in three acts and five scenes, the book by Giuseppe Adami and Renato Simoni, the music by Giacomo Puccini, was performed at the Metropolitan Opera House last evening for the first time in this country. The night was filled with splendors, for this is an opera in which the eye and the ear must be equally absorbed. The revelation of this union of the arts tributary to the drama was effected without the aid of the subscription, but there was a great audience and abundant manifestations of public interest.

The opera was unfinished when death overtook the composer and Franco Alfano was called upon to write the final pages of the score. What he did has already been told in this place. The first performances
of “Turandot” were given at the Teatro alla Scala in Milan last April. The original cast included some singers well known here, namely, Rosa Raisa as the heroine, Michele Fleta as the Prince and Giacomo Rimini as Ping, the grand chancellor. Arturo Toscanini directed the performances. The piano version of the work contains the names of all principals engaged in the production, including the first players in the orchestra.

The story is taken from one of the tales of Count Carlo Gozzi, who lived from 1722 to 1806 and gained much fame from the creation of dramatic pieces based on fairy tales. The most famous of these was “Turandot, Princess of China,” which attained the signal honor of translation into German by Schiller. His version was also utilized by Puccini’s librettists. The basis of this delightful fable is the aversion of the Princess Turandot to the honorable estate of holy matrimony, said aversion being based on the violent marriage by conquest of her great-grandmother. Since princesses are expected to marry, this one devises an evasion in the shape of enigmas. Customarily ladies ask many agitating questions of gentlemen who desire to marry them, but in each case this lady asks just three. If the candidate cannot answer them, he loses not only the princess, but also his head.

The prince of Persia has just lost his when an unknown Prince, who is loitering about, sees the Princess, falls in love, and announces his intention of taking the usually fatal examination, He triumphantly solves the three riddles, and then the Princess calls upon her father the Emperor to save her. He reminds her that an oath is sacred, but that does not trouble her at all, and she asks the Prince if he wishes to take her with hate in her heart. No; he will take her with love.

He then offers a way of escape. She does not know his name. If she can tell it the next morning, he will resign his claim, to her hand and lay down hiss life. The Princess learns that his slave Liu, who has followed him, can give her the desired information, but Liu loves the Prince, and will not betray him, Put to the torture and fearing that she will be overcome, she kills herself. After her body has been borne away the Prince bids Turandot unveil that she may see the pure blood she has caused to be shed. He tears the veil off. A moment later he crushes her continued defiance by seizing her in his arms and kissing her passionately.

This hitherto unkissed lady is melted and now the unknown prince tells her his name. The instant she knows it she resumes her former demeanor and hastens to the great place before the palace to claim the forfeit. But she melts again at the last second and proclaims the name of the Prince as “Love.” Whereupon the Chinese empire as represented by Giulio Setti’s industrious chorus sings a paean of thanks.

This final work of Puccini might be the subject of a long and critical analysis just because it was by Puccini, but that at least must be deferred. First impressions are all that should be recorded now. And the first of them all is that the subject matter of the libretto is good dramatic material, but might have been better handled. Above all other detracting elements loom the three counselors called Ping, Pang and Pong. They are continually obtruded in the path of the development and in the first scene of the second act become veritable nuisances with their long winded maunderings, which have nothing to do with the progress of the drama. If these characters were intended as comic relief, they are a failure. They are neither comic nor a relief, except when they leave the stage.

Musically, the opera is planned on a ponderous scale, There is far more choral and ensemble writing in it than in any other creation of the composer. The music, too, is generally conceived in massive forms. It is clangorous, and it seeks to be imposing. There is much strenuous declamation and comparatively little play of the gentler accents of vocal art. The utterances of the Princess are chiefly sound and fury and they lost nothing by the amazing prodigality of Mme. Jeritza’s tones.

There is but an echo of the older type of Puccini melody. But the [first] scene promises us something new in his choral writing. There is tremendous energy in the first chorus and a suave beauty in the second and both are fine examples of operatic writing. But in subsequent scenes the choral fires burn low and finally we get only smoldering embers of inspiration. The last act contains a vigorous air for the Prince and a duet couched in sound and well seasoned operatic terms, one would have expected the composer’s imagination to blaze with brighter flame at the altar of Venus Vietrix.

As to the technical construction of the score only two or three points need be made. Of course there is local color in the frequent use of Chinese themes and in the suggestive tints of the orchestration. Weber wrote music to Schiller’s “Turandot” and also used Chinese melodies. Quite logically and with the unerring theatrical instinct which never deserted Puccini the fundamental, emotions of the drama are published in unadulterated opera music. But the Chinese melodies hold a position in the foreground of the instrumental picture and much of the vocal ensemble. The orchestration is opulent and reveals the familiar power of the composer to weave the magic spell of instrumentation.

Representative themes appear in this work, but Puccini avoided the pitfall of slavish adherence to them. They are few and direct. The motive of the Princess (or her malign power) is first heard when the boys sing outside before the Prince of Persia appears and in full force again when the Princess enters. The enigma theme, which consists of a brass fanfare accompanies the warning of the Princess that the enigmas are three and death but one, and is heard when the Prince propounds his riddle. But the pursuit of the leading motive plan, which Wagner unloaded on the already burdened shoulders of music, is generally unprofitable, for unless the motives weave themselves into an expression of the scene they are of no importance.

There will perhaps be some differences of opinion as to whether in this last score Puccini achieved unity of style, But this matter may he left for future discussion. The production of the opera at the Metropolitan is truly splendid. Josef Urban’s scenery is gorgeous in color, appropriate in mood, and touched with the fantasy of the story. Mr. Serafin has prepared the music with skill and authority. Mme. Jeritza’s costumes are magnificent, and the garments of the other principals and the chorus suggest the China of Aladdin’s lamp.

The delivery of the music was generally most vigorous. It is a very loud opera indeed, but may be toned down. About the individual impersonations comment may be made after the second performance.

At the close of the performance there were some fifteen curtain calls for the principals.